Giulio Stocchi il Compagno Poeta
In ricordo dell'amico poeta, Giulio Stocchi, ad un anno dalla sua scomparsa
Giulio Stocchi, il Compagno Poeta
Il compagno poeta. Un anno fa, il 9 Aprile 2019, Giulio Stocchi ci ha lasciato. È stata una grande perdita per la Cultura italiana.
Ho conosciuto Giulio nel 1970, dopo la sconfitta dei palestinesi in Giordania e il massacro di Amman. Me lo aveva presentato l'amico Mabrouk, che lo aveva incontrato a Beirut. Era andato lì insieme alla sua ragazza, Carole, per conoscere la realtà dei campi profughi palestinesi. Mi ricordo ancora oggi quell'incontro a Milano, seduti ad un tavolino del baretto, all'incrocio tra via Festa del Perdono e piazza Santo Stefano, nei pressi dell'Università Statale.
Da quel momento è nata un'amicizia indissolubile, fatta di lunghe discussioni, di incontri fino a tarda notte e di cene. Giulio era anche un bravo cuoco. Si discuteva di tutto in quell'inter-gruppi in miniatura che era la nostra combriccola. C'erano i medici Enzo Mosca, Claudio Bazzi e Paola Pieracci di Lotta continua, Cesare Mollese e Gaetano Liguori del Movimento Studentesco, qualcuno di Avanguardia Operaia e anche del Manifesto, Donatella Zazzi e Giancarlo del “PC(m-l) Servire il Popolo”, oltre all'indimenticabile nostro filosofo, Umberto Melli e la sua compagna Riccarda Tarozzi. Immancabile la dolce compagna di Giulio, Carole Aghion. Il legame di amicizia - quello che ci univa - era più forte dei dissidi ideologici e delle appartenenze politiche. Giulio era al di sopra di tutto, lui era il Poeta, l'intellettuale artista, che tesseva relazioni e costruiva intrecci, al pari delle sue collane di perle in parole e suoni.
Quando
l'ho conosciuto aveva già abbandonato il teatro e si era deciso di
dedicarsi alla scrittura, al giornalismo, al suo POEMA misterioso,
che era al centro delle lunghe discussioni, ma che – noi suoi amici
più stretti – non avevamo mai ascoltato la recita di qualche
frammento. Vedevamo sul suo tavolo di lavoro le pile di fogli
dattiloscritti, che però c'era il divieto più assoluto di
sbirciare. E devo dire che tutti noi rispettavamo questo suo
“riserbo”, lui in fin dei conti era la nostra star.
Quanta
gioia ci riempiva il cuore quando, alle grandi manifestazioni di
allora, con Piazza Duomo piena, ascoltavamo la sua voce dal palco,
mentre declamava i suoi versi dedicati agli operai in lotta o agli
studenti caduti sotto i colpi della polizia. Noi, suoi amici, avevamo
anche il privilegio di ascoltare le sue composizioni poetiche in
privato, a casa sua in via Magenta all'88, non lontano dal chiostro
dell'Ultima cena, il famoso dipinto di Leonardo Da Vinci.
Mi ricordo il racconto del suo viaggio a piedi, insieme all'amico fotografo, Franco Fontana e Carole, in Dhofar, la regione montagnosa occidentale dell'attuale Oman e conservo gelosamente il suo articolo pubblicato sull'Unità, sulla lotta di liberazione di quel popolo, sconfitto l'anno dopo dall'intervento militare dello scià di Persia.
Indimenticabile, poi, il tormentone sulla pubblicazione del libro presso l'Enaudi, “Compagno Poeta”. Noi tutti pensavamo alla monumentale opera del Poema, ma Giulio ci aveva sorpreso con un gioiello di scrittura alternata, tra i componimenti in versi ed i racconti in prosa.
Il grande salto è stato La Cantata Rossa per Tal Zaatar, che con il sodalizio Stocchi-Liguori-Stratos ha toccato livelli alti di lirismo e musica.
La sua produzione letteraria, sia poetica che in prosa, è poderosa e ne sono testimonianza i suoi libri pubblicati. “L'Altezza del Gioco”, “Naufragi ed Altre Acque”, “Fare Poesia”, “Quadri di un'esposizione”; “In tempo di Guerra”; “La Poesia come viaggio” e molti altri che magari li ha pubblicati soltanto in pdf da regalare agli amici, come la sua poesia-monologo su Pasolini, “ Una nera rabbia di poesia, l'ERETICO & CORSARO”. Troverete il link, qui sotto, per scaricarla.
Giulio ha tradotto tanti libri. Uno per tutti,: Pablo Neruda, "Confesso che ho vissuto" (in co-traduzione con Savino D'Amico) - Sugarco e poi Oscar Mondadori.
Di Giulio conservo ancora i suoi illustrati biglietti augurali, che realizzava lui stesso con le sue poesie e spediva per posta ordinaria agli amici ed alle amiche. Non si è mai arreso alla comunicazione virtuale, né ha abbandonato la sua storica macchina da scrivere, malgrado che sapesse usare perfettamente le potenzialità del web.
Per farvi gustare il nettare della sua scrittura vi propongo un testo che ricorda i suoi primi anni di studio e di impegno, con al centro un episodio che ha segnato una svolta nel suo percorso umano: il lancio di uova precisissimo contro il vice presidente degli USA, Hamphrey, in visita a Firenze. Lo scritto è “Eleanor Rigby”, dal titolo di una canzone dei Beatles, testo che si conclude con due poesie, una dei quali ispirata proprio alla canzone.
Farid Adly
Eleanor Rigby
Eleanor Rigby
di Giulio Stocchi
Chiunque
di noi in età matura si chini a riflettere sui propri inizi, è come
se scrutasse nella sabbia della propria giovinezza le linee ancora
confuse del volto che gli anni ci hanno guadagnato, i segni di ciò
che ha fatto di noi quello che siamo. E’ come interpretare un
antico oracolo che ci riguardava. Ma come ci insegna Edipo, non è
necessario che l’oracolo sia immediatamente comprensibile a colui
cui è rivolto, anzi!
L’essenziale è che l’oracolo si avveri.
E questo, come dall’alto di un monte chi valuta il cammino
percorso, può essere giudicato solo nella prospettiva del tempo,
quando le carte che avevamo in mano sono state, bene o male, giocate.
Fu
nel gennaio del 1967 la prima volta che ascoltai, in un bar, Eleanor
Rigby.
Era, ricordo, uno di quei gennai freddi e luminosi che raramente si
vedono nella Milano illividita di questi anni. Anche Milano era
diversa: città operaia e intellettuale, la capitale morale del
paese, come si diceva con qualche esattezza allora, fucina di
dibattiti e discussioni, percorsa dai fremiti e dai fermenti che
annunciavano la tempesta dell’anno successivo. A quei tempi,
troneggiavano nei bar due monumenti, attorno ai quali si affollavano
i giovani: il flipper, terreno lampeggiante e ticchettante di
interminabili partite, e il juke-box, lo scrigno sonoro di tante
melodie. Eravamo quattro amici: Guido Gagliardi, Mario Silvestri,
Clara Oliveti ed io. La monetina che Guido, con la cautela di chi di
soldi ne ha pochi, faceva scivolare nell’apparecchio metteva in
movimento il braccio di quel rudimentale robot che andava a ripescare
il disco che lentamente lentamente veniva a posarsi sul piatto, ed
ecco il locale inondato da quella musica ipnotica che mi affascinava
e mi rapiva per la sua struttura fugata e di cui non capivo
assolutamente le parole dato che l’inglese lo leggevo sì sui miei
ponderosi libri di studio ma restava per me territorio sconosciuto se
parlato o addirittura, come nel caso di Eleanor
Rigby,
cantato. Mi ero, chissà perché, convinto – e questa convinzione
ha resistito fino a pochi giorni fa – che Eleanor Rigby fosse una
poesia tratta da Spoon
River,
il capolavoro di Edgar Lee Masters.
Il bar era dalle parti di
porta Vigentina, in via Curtatone, proprio accanto alla Piccola
Commenda. Anche questo è uno dei monumenti di una Milano che non c’è
più, il teatrino in cui si era materializzato l’amore che un
industriale illuminato, il Cavalier Pizzoli, nutriva per la moglie
Dolores, una donna sontuosa come possono essere le venete immortalate
dal Giorgione, la quale si dilettava di recitazione e di regia e ora
aveva un teatro tutto per sé dove esercitare la propria arte, un
vero e proprio tempio a lei dedicato che l’adorazione del marito le
aveva eretto ricavandolo, con un colpo di bacchetta magica e tanti
soldi, negli scantinati di un anonimo palazzo in puro stile anni
cinquanta. Ma quando entravi nel teatro, subito soprannominato la
“bomboniera” di Milano, la sagoma tozza del palazzo si dissolveva
come il brutto ricordo di una volgarità di cui la raffinatezza della
sala era l’antidoto: novanta poltroncine di velluto blu, moquette
dappertutto, un palcoscenico piccolo ma attrezzatissimo, un minuscolo
bar coi suoi sgabelli e dietro il banco, sopra una sfilza di
rarissime bottiglie allineate, uno splendido affresco di Salvatore
Fiume che celebrava in allegoria i fasti di Talia e di Melpomene e la
bellezza di Dolores.
Fumata l’ultima sigaretta e con le orecchie
che ancora risuonavano della musica ammaliante dei Beatles, verso le
otto Guido, Mario, Clara ed io uscivamo dal bar e correvamo in
teatro. Perché non eravamo solo quattro amici, ma quattro colleghi,
quattro giovani attori che Dolores Pizzoli aveva scritturato per una
commedia destinata ad arricchire il suo cartellone fitto di testi
sperimentali o stravaganti. Si trattava di una commedia inglese, The
knack,
di cui francamente non ricordo l’autore, ma dalla quale era stato
tratto un film di un certo successo, Non
tutti ce l’hanno,
che era anche il titolo con cui il lavoro veniva presentato in teatro
al pubblico milanese. La mia parte era quella di Colin, un giovane
pittore, timido ed introverso, che alla fine riusciva a
conquistare le grazie della fanciulla, strappandola alla corte
serrata degli altri due amici. Timido, nella vita reale, lo ero
davvero. “Più passione!”, mi sembra di udire la voce roca e
profonda di Dolores, dall’antro nero della sala, dove sedeva al
tavolo di regia durante le prove, di fronte ai miei maldestri ed
impacciati tentativi di baciare la ragazza nella scena finale dove
l’amore dei due giovani trionfa. “Più passione!”, un argomento
questo della passione che, a detta delle proverbiali malelingue dei
teatranti, l’affascinante regista doveva conoscere non poco dato
che, come sussurravano i maligni, non disdegnava le grazie dei
giovani attori che frequentavano il teatro. Io stesso, per quanto
principiante, della passione, sempre nella vita reale, non ero
proprio digiuno: ne conoscevo almeno i primi rudimenti, e anche
qualcosa di più.
Anzi, in quei giorni ero torturato dal ricordo
dell’amore, tormentoso ed esclusivo come possono essere i primi
amori, che per più di due anni mi aveva legato a una mia compagna di
Accademia, Anna Lisi, che proprio qualche mese prima mi aveva
lasciato con le parole cattive consuete in questi casi -e che tante
volte avrei riudito nel corso della mia vita- e con la quale,
naturalmente, a quasi quarant’anni di distanza siamo oggi ottimi
amici.
Ogni
volta che passo davanti al prezioso portone gotico del palazzo
trecentesco in via F?lodrammatici, dove aveva sede l’omonima
Accademia d’Arte Drammatica, non posso fare a meno di pensare al
batticuore di quel mio primo ingresso, nell’ottobre del 62, lungo
lo scalone che portava alle aule della scuola. In Accademia si
entrava solo per concorso. Avevo deciso di tentare la sorte perché,
pensavo allora e ne sono oggi ancora più convinto, volevo che la
poesia uscisse dalle pagine mute e sterili dei libri e trovasse nella
voce lo strumento cordiale che ne facesse un bene condiviso. E con
una mia poesia, che avevo scritto l’anno prima a 17 anni,mi ero
presentato all’audizione che doveva decidere del mio destino sulle
scene. Si trattava di un componimento, Sera
mistica,
chiaramente ricalcato sui versi di Baudelaire e di Verlaine di cui
ero allora gran cultore, considerandomi, come ogni adolescente, un
unico, un maudit.
“Fuggono l’un dopo l’altro i giorni/e di tanti addii/solo il
rimpianto/dolce è rimasto…”. Ma quei versi, o più probabilmente
l’ingenuità e la passione con cui li avevo recitati, avevano
colpito la mia futura insegnante di dizione e mi erano valsi il
sospirato ingresso in Accademia. Intanto, da qualche parte a
Liverpool, quattro ragazzi, destinati a rivoluzionare il panorama
della canzone internazionale, facevano a loro volta il loro primo
ingresso in palcoscenico.
Dora Setti, questo è il nome della mia
insegnante, era una gran signora di quella borghesia milanese colta e
democratica così diversa dallo stuolo di miserabili piazzisti cui
siamo oggi abituati. Grazie a lei, durante il corso di dizione, mi
sono avvicinato ad altri poeti il cui studio ci proponeva
-Majakovskij, Hikmet, József,Eliot, Neruda, Garcia Lorca, Alberti,
Brecht, Ungaretti, Montale, Pavese, Fortini- che sarebbero divenuti
miei compagni e miei maestri. Quello che allora non sapevo era che
Dora Setti aveva due nipoti: uno, Paolo, allora studente di medicina,
e oggi chirurgo di fama, di cui sarei diventato grande amico, e
l’altra, Emanuela, la moglie del generale Dalla Chiesa, uccisa
insieme al marito giusto vent’anni dopo, nell’82, a Palermo. E
il pianto dirotto di Paolo, durante i funerali della sorella,
alla Chiesa delle Grazie, vicino a casa mia. E’ così che il
destino intreccia i suoi fili, le sue oscure trame, che fanno i
rapporti di cui è intessuta la nostra vita. Se Dora Setti era
l’intellettuale fredda e distaccata, precisa come la sua voce
cristallina, Esperia Sperani, I’insegnante di recitazione era un
vero e proprio animale da palcoscenico, di cui conosceva tutti i
trucchi,istintiva e passionale, ma anche capace, come un’antica
maga, di dispensarci i segreti della sua arte. Segreti di cui si era
magistralmente impadronita Mariangela Melato, radiosa nel fulgore dei
suoi vent’anni, la quale, diplomatasi l’anno precedente, veniva
spesso a visitare le sue antiche insegnanti e a scambiare quattro
chiacchiere con i nuovi alunni. In realtà, si davano di gomito i
teatranti, in erba sì ma già esperti in maldicenze, per farsi
desiderare dai maschi e invidiare dalle femmine. La signora Sperani
sembrava condividere le nostre ipotesi maliziose: sorrideva fra sé e
sé, poi congedava con un gesto gentile ma fermo la giovane attrice e
riprendeva a insegnare; i suoi gusti erano un po’ più tradizionali
rispetto a quelli della collega: Rosso di San Secondo, Giacosa,
Pirandello, ma anche impreviste incursioni nel teatro di Miller o di
Sartre. Sartre era un nome che mi era divenuto ormai più che
familiare. Se infatti all’Accademia si entrava per concorso,
l’ingresso all’Università avveniva per scelta. E dopo essermi,
secondo quanto prescrivono i canoni del mio carattere indeciso, a
lungo tormentato, avevo optato per filosofia. Passavo da un gioiello
architettonico all’altro, dal gotico trecentesco di via
Filodrammatici, allo splendore rinascimentale dell’ospedale del
Filarete, dove ha sede l’Università Statale. Con i suoi cortili
spaziosi, i suoi chiostri appartati, i portici dalle colonne svelte
ed aggraziate, avevi l’impressione di entrare in un antico
cenacolo, quasi rivivesse nella frenesia della città la quiete
dell’Accademia platonica o della veneranda Stoà. E in effetti
l’Università non era l’esamificio che è oggi, con la sua massa
di studenti desiderosi solo di impadronirsi del loro sospirato pezzo
di carta. Ricordo che a filosofia quell’anno ci eravamo iscritti in
una decina e che gli studenti di tutti i corsi non superavano i
sessanta i quali, quindi, avevano modo di essere seguiti e di
instaurare coi professori un rapporto profondo e personale, di
soddisfare la propria curiosità intellettuale, la propria sete di
cultura. Una cultura così lontana da quella asfittica del liceo e
aperta a tutti i fermenti e le novità in ogni campo del pensiero. Ed
ecco Musatti, con la sua testa bianca e la cadenza della voce che
conservava ancora qualcosa della Trieste mitteleuropea della sua
giovinezza, offrirci con le sue lezioni di psicoanalisi il filo
d’Arianna per penetrare i segreti dell’inconscio e comprendere i
grovigli che ci tormentavano; e Paci, che faceva capolino da una
cerchia di studenti e di signore impellicciate accorse a percorrere
insieme a lui i sentieri dell’esistenzialismo e quelli più impervi
della fenomenologia di Husserl, o dello strutturalismo di Levi
Strauss; o Dal Pra, chino come un’entomologo su ogni frase e ogni
parola dei Manoscritti
economico-filosofici di
Marx, appena pubblicati, e attraverso i quali ci rendeva familiare
il concetto di dialettica; e ancora Gillo Dorfless, che aveva
allargato i confini angusti dell’estetica tradizionale spaziando
sui segni del design, sugli apparenti capricci della moda; e
Geymonat, con quella sua aria cordiale da vecchio contadino,
squadernarci i misteri del calcolo delle probabilità; o la stretta
di mano di Cazzaniga, che mi aveva premiato con un bel trenta e lode
perché avevo saputo leggere in metrica latina I’Eneide che
portavo all’esame e mi aveva al contempo insegnato quanto
importanti siano i rapporti fra suono e senso nella poesia di ogni
tempo e latitudine. E tanti altri… Tutti giganti intellettuali in
confronto agli Zecchi televisivi che ci affliggono con le loro
chiacchiere quasi ogni sera dagli schermi.
Ciò che accomunava
tutti questi miei maestri, al di là delle differenze specifiche
delle loro rispettive dottrine, era l’ideale di un mondo adeguato
alla loro cultura, un mondo cioè di liberi e di eguali. E in effetti
i segni di una trasformazione nel senso dell’eguaglianza e della
libertà non mancavano: dalle lotte di decolonizzazione in Africa,
alla vittoria, dopo una lotta sanguinosissima, del Fronte di
Liberazione Nazionale in Algeria, al trionfo di Castro e dei suoi
barbudos
a
Cuba. Per questi ultimi, in particolare, noi ragazzi nutrivamo una
quasi istintiva simpatia, se non altro per ragioni di età: quasi
nostri coetanei, i volti di quei giovani arruffati, Castro, Camilo
Cienfuegos, il Che, ci dicevano che un altro mondo non solo era
possibile, come si dice oggi, ma in larga misura reale. A distruggere
quella realtà ci pensavano come al solito i campioni della nostra
occidentale democrazia, gli Stati Uniti d’America, che dopo aver
saccheggiato come terra loro di conquista I’America latina -“troppo
vicina agli Stati Uniti e troppo lontana da Dio”, secondo la
definizione di José Martì- col sempiterno pretesto della difesa
della libertà contro il comunismo assassino -il “regno del male”,
nella versione odierna della dottrina- avevano tentato di invadere
Cuba alla Baia dei Porci e portato il mondo sull’orlo della guerra
mondiale con la crisi dei missili dell’ottobre del 62.
E così
in difesa dell’indipendenza di Cuba e del sacrosanto diritto dei
popoli di decidere del proprio destino, pochi giorni dopo la mia
audizione all’Accademia, il 27 ottobre del 62, ero sceso per la
prima volta in vita mia in piazza, partecipando a una manifestazione
indetta dalle forze democratiche. Se per me quella era la prima
manifestazione, per Giovanni Ardizzone doveva essere l’ultima,
travolto a vent’anni dai camion della polizia, scatenati contro la
folla, in via Mengoni, a pochi passi dal Duomo, dietro la Galleria.
Il primo che vedessi di tanti uccisi che avrei in seguito pianto, la
lunga striscia di sangue che insozza il nostro Stato, fino al ragazzo
Giuliani, freddato durante le giornate genovesi.
E
forse perché lo scempio di Ardizzone era avvenuto verso le cinque di
sera, quando in Accademia affrontavo, cercando di farli vivere con la
voce, i versi del Lamento
per la morte di Ignacio di
Garcia Lorca, avvertivo che quelle parole riguardavano in un certo
qual modo anche la tragedia cui avevo assistito, proprio perché
esprimevano il dolore per la perdita di un amico, perché è così
-un amico- che ogni giovane sente quasi istintivamente il suo
coetaneo. L’amicizia, del resto, percorreva in quegli anni strade
impreviste e tortuose. Irene Bignardi, che è oggi una notissima
giornalista di Repubblica, era allora semplicemente l’Irenella, una
ragazza alta, dagli occhi di cristallo, mia compagna di filosofia,
che tutti, me compreso, corteggiavano per la sua bellezza e la sua
vivacità. Ma, come tutte le belle donne, I’Irenella era un tantino
maliziosa. Una sera mi telefona dandomi appuntamento in un locale
dove, diceva, voleva presentarmi un suo amico, naturalmente un altro
dei suoi numerosi spasimanti, nella segreta speranza forse di
assistere dall’alto della sua venustà a uno di quei duelli d’amore
di cui si compiacevano le dame d’antan.
Il terreno, il campo chiuso, di quella tenzone, debbo riconoscerlo
era scelto bene: la Taverna ai piedi della Torre medioevale dei
Moriggi, una dei pochi monumenti che sopravvivono della Milano del
duecento. Ed eccolo, seduto al fratino di noce massiccia, accanto
alla sospirata delle nostre brame, il mio rivale: un ragazzo di
venticinque anni, gran naso, un lampo di ironia negli occhi e quel
sorriso etrusco retaggio forse delle sue origine umbre.
Piero
Scaramucci, già allora cronista alla Rai e che di radio ne avrebbe
fondata una, famosissima, Radio popolare di Milano. I due ragazzi, il
più giovane più timido, I’altro con la sicurezza della
professione e della maggiore età, cominciano a parlare. E bevono. E
si accalorano sempre più discutendo di Mattei che era appena caduto
col suo aereo a Bascapé, e delle sette sorelle che forse avevano
interesse a farlo fuori, e di Praga, dove Piero è nato, e
dell’indipendenza dell’Algeria… E bevono. E parlano. Lasciando
in disparte I’Irenella che li osservava con aria sempre più
interdetta e desolata senza riuscire a frenare coi suoi incanti quel
fiume di parole che aveva ormai rotto gli argini. E bevono, bevono,
bevono in una di quelle solenni sbornie che inaugurano spesso le
grandi amicizie e che si era quella sera conclusa sotto lo sguardo
sbalordito dei miei genitori che mi avevano trovato a letto rigido
come un baccalà, ma elegantissimo, con cappello, ombrello e
impermeabile.
Di bevute e di chiacchierate con Piero ne avremmo
fatte tante in tutti i possibili locali di Milano: nelle crote di una
Brera ancora popolare, nelle bettole sui Navigli, regno in quegli
anni incontrastato dei personaggi pittoreschi della piccola malavita,
la ligera o
in via Valpetrosa, laica allora, con le donnine che ammiccavano dai
portoni dove oggi sono gli asettici ristoranti dei buddisti.
Piero
si sentiva il mio fratello maggiore. Voleva che imparassi. Mi
raccontava, in quelle mezzanotti di bicchieri, del luglio ’60, del
governo Tambroni e dei moti di Genova. Mi spiegava che alla Fiat
stavano per firmare certi accordi. Anzi, un “accordo quadro”,
diceva. E questo non mi entrava assolutamente nella testa.
Di
operai non sapevo nulla. Sì, che esistevano da qualche parte, e poco
più. Poi mi parlava del XX Congresso, dell’Ungheria, della
svolta di Togliatti. Piero era dei Quaderni
Rossi.
E mi portava spesso con sé in un garage dalle parti di Città Studi.
A leggere e discutere Rosa Luxemburg. C’erano Vittorio Rieser,
Edoarda Masi, Goffredo Fofi. E, con mia grandissima sorpresa, quel
Fortini che studiavo in Accademia e che era tutto infervorato a
parlare non di poesia ma di centrosinistra e di ristrutturazione. Io
me ne stavo zitto e non capivo molto. Ma posso dire oggi che nel
crogiuolo della mia prima gioventù erano presenti tutti i metalli
che avrebbero composto la lega della mia esistenza: la poesia, I’arte
della voce, la filosofia, la politica, lo sdegno che non mi avrebbe
più abbandonato per i morti della piazza, un presagio di operai… E
naturalmente, l’amore.
“La compagna della tua giovinezza”,
dice il profeta Isaia, “come potrai scordarla?”… e Anna si
trucca in camerino che tra poco deve andare in scena per il saggio
all’Accademia e sarà la Bella dei Giacinti in un dramma di zagare
e coltelli di Rosso di San Secondo e lo specchio restituisce un
visino di porcellana e lieve la matita contorna gli occhi fondi dove
cova la brace di una ribellione che l’ha spinta a sposarsi a
diciott’anni per uscire di casa e separarsi l’anno dopo io nel
camerino accanto un poco di biacca nei capelli per ingrigirli che ha
quasi quarant’anni il Nero della Zolfara cavaliere contadino che
riscatta la Bella da tutta una vicenda di soprusi e la carezza del
belletto le ravviva le guance che m’aveva preso le mani sapendo
della malattia di mio padre per consolarmi pensando mentre
indosso la giacca nera e la fusciacca rossa in vita alla sorte
inseguita tante sere insieme sulle donne e i fanti dei giochi delle
carte senza osare dirle nulla e la sua figura minuta è ancora più
sottile nell’ampia gonna a balze e nel corpetto che la stringe
mettendo in risalto il seno su cui spicca la goccia di sangue di un
corallo terra di sogni fantasticata tante notti con gli occhi aperti
in letto e mentre ripasso per l’ultima volta la parte il chi è di
scena mi sorprende entrando insieme nel cono di luce sull’assito
che ci separa dalle ombre fitte della platea e siamo soli
pronunciando le parole ardenti della passione che un altro ha scritto
e io sono il Nero e lei la Bella ma quando la stringo a me ti adoro
dico e sono io Giulio che parla sono tua risponde lei e sento il
fremito che la scuote e allora lo so la mia Bella è lei è Anna Anna
la mia Anna… E così eravamo lentamente scivolati dalla finzione
nella realtà uno nelle braccia dell’altra.
Ma la realtà, com’è
noto, ha i suoi spigoli, i suoi chiodi, i suoi cocci, i suoi
frantumi. E insomma: le sue contraddizioni. E mentre mi addentravo
per la prima volta in quel continente che è il corpo di una donna,
non mi davo pace che altre mani l’avessero percorso, avessero
violato i suoi misteri. Quell’insensata gelosia finiva per
sconfiggere la tenerezza che Anna mi donava, in domande ossessive, in
lunghe recriminazioni, in interminabili accuse… finché l’urgenza
del piacere ci travolgeva di nuovo in un abbraccio che cancellava
tutto… fino alla prossima volta.
Piero, che era un vero amico,
aveva deciso di innamorarsi anche lui, e aveva proposto a me e ad
Anna di trascorrere l’estate in un paesino sulle alture del lago di
Como insieme a lui e alla “Signora dagli Occhi Lunghi”, come
aveva soprannominato il suo amore in una poesia che le aveva
dedicato. Scendeva le scale la sera quella donna dai tratti esotici,
si sedeva sul divano accanto al caminetto scoppiettante, ci guardava
come chi si accinge a porgere un tesoro in dono, prendeva la chitarra
e iniziava a cantare. Non era una voce, era un miracolo, una fontana
che zampilla nella quiete della notte, una cascata di stelle, I’eco
primigenia di un’antica armonia. Ma poi si rompeva in schegge, si
straziava d’addii, saliva, saliva, saliva fino a ridere col grido
degli uccelli nell’alto dei cieli, tornava sulla terra e ti cullava
come l’onda di risacca. Kathy Berberjan cantava e noi
viaggiavamo con lei per lingue, epoche e paesi: dai madrigali del
cinquecento alle mondine della bassa, dalla nostalgia senza nome di
un fado lusitano a Yellow
submarine o
Sargeant
Pepper dei
Beatles, da un canto provenzale alle straordinarie partiture di soli
suoni e interiezioni che il marito, Luciano Berio, aveva composto per
lei. Per la prima volta mi rendevo conto che “magia della voce”
non è solo un’espressione metaforica, ma una realtà di cui
quell’artista straordinaria ci faceva partecipe, come solo avrei
riudito, anni dopo, in Demetrio Stratos, quando mi fece l’onore di
interpretare Amna, un brano della mia Cantata
per Tall el Zaatar.
Artisti, Demetrio e Kathy, che osano spingersi ai limiti e da lì,
come angeli, spiccano il volo allontanandosi troppo presto dal mondo.
Un mondo che nel corso della sua carriera Kathy Berberjan aveva
percorso in lungo e in largo, calcando le scene a Roma, New York,
Berlino, Mosca, Pekino, riscuotendo ovunque il successo che meritava.
Anche
noi, naturalmente, sognavamo il successo quando finalmente il diploma
stilato su una cartapecora preziosa quanto regolamentare ci aveva
consacrato attori. Ma la prima esperienza fu quanto meno deludente:
una platea di bambini vocianti al Teatro dell’Arte dalle parti del
Parco, una commedia, peraltro gradevole, di Luigi Santucci, il cui
titolo, Ciò
che avete in più datelo ai ricchi,
già bastava a contraddire le mie convinzioni più profonde, e
soprattutto un regista viscido e dai capelli unti, un tal Barbieri,
il prototipo del democristiano che andava allora di moda, tutto
sussurri, Dio e sfregarsi di mani, il quale, dopo più di un mese di
autentica tortura con quei piccoli diavoli scatenati che facevano
tutto tranne che ascoltarci, era riuscito, con qualche cavillo
dell’unica arte in cui eccelleva, a imbrogliarci e ad andarsene
senza pagarci le miserabili duemila lire di diaria che la nostra
scrittura ci valeva. Dopo essermi rimesso da un esaurimento che mi
induceva a tentare di strangolare ogni bambino che incontravo, un
giro di telefonate e: Consiglio di guerra. Che fare? In realtà la
risposta all’illustre e fatidica domanda l’avevo già. Io, che
non posseggo né patente né auto e che amo quindi camminare, ero
passato un giorno, nelle mie lunghe peregrinazioni in cerca di una
piccola vittima, in via Poliziano, al quartiere cinese, e qui il mio
futuro mi era balzato incontro nell’insegna di un bar, Le
Clochard,
un locale che aveva una sala al primo piano dove a tarda sera attori,
cantanti, intrattenitori, giocolieri e quant’altro si esibivano.
Era, il Le
Clochard,
il primo in assoluto dei tanti cabaret che sarebbero nati come funghi
a Milano e in tutt’Italia, e, al contempo, la soluzione di tutti i
nostri problemi: non più la tirannia di registi raffazzonati, ma
soli, belli, indipendenti. Al cabaret. Vinco con la mia ben nota
facondia le obiezioni di Anna e di Pierluigi Rossetti, un nostro
compagno che avevo convocato al famoso Consiglio, siamo in tre e
quindi ci battezziamo Teatrino
dei Tre,
che per via di assonanze e allitterazioni suonava benino,
Pierluigi, contagiato da quell’entusiasmo nomenclatore, decide che
d’ora in poi si sarebbe chiamato Tomaso, con una sola aristocratica
emme, e un altrettanto improbabile Benci di cognome, Anna, per non
essere da meno, prende, con mio sommo fastidio, a miagolare Jou-Jou
ogni volta che mi vede e così, risolta bene o male la questione dei
nomi, siamo pronti per… Ah già… Il repertorio… Niente paura:
tanto Prevert e Tardieu, in omaggio alla mia francofilia, una
spruzzatina di Mike Nichols, qualche goccia del teatro in tre minuti
di Achille Campanile, una punta di Brecht, che un po’ di amaro non
guasta… Et voilà, le cocktail est fait pour se rendre AU
CABARET!
O meglio, ai cabaret: il Le
Clochard,
il Derby
club,
a Milano, I’Intra’s
club a
Bologna, e poi Bergamo, Firenze, Roma… Erano, quei locali,
un’ottima scuola, non solo di teatro ma di vita, un osservatorio
che permetteva di cogliere gli impercettibili cambiamenti che
iniziavano a trasformare il paese, quasi che le sue diverse anime si
dessero lì convegno. Giovani arruffati, con barba e occhiali e certe
giacche sformate dalle cui tasche faceva capolino un libro, signori
pensosi e assorti, quasi partecipassero a un rito, donne in gruppo
che ostentavano una sigaretta spavalda mettendo in mostra le gambe.
Ma anche, ed erano quelli che più mi incuriosivano, certi grassoni
in età con giovanissime svampite al fianco, trafficoni in
doppiopetto che non smettevano di scambiarsi cenni, giovanotti
chiassosi, camicia aperta, petto villoso e catena d’oro, capaci di
spendere una fortuna in una sera. Vedevo in costoro quello che avevo
letto sui libri di Marx, gli uomini alienati nel senso dell’avere,
la razza di coloro che sono ciò che hanno, una razza cresciuta oggi
a dismisura e alla quale non facciamo quasi più caso, ma che allora
non mancava di colpirmi.
Se il pubblico era quello, gli artisti
che dovevano intrattenerlo sembravano usciti direttamente dal libro
della fantasia, personaggi pittoreschi e favolosi come Jean Tchekò,
il principe gitano che cantava il martirio del suo popolo nei lager,
o Katiuscia, la bella, uscita chissà come da qualche impronunciabile
paese del Caucaso, che prima affascinava gli spettatori con le sue
lunghissime gambe per fargliele immediatamente dimenticare rapendoli
nel turbine di neve delle canzoni della sua terra misteriosa, e
quelli che avevamo soprannominato l’articolo il, Gero, il minuscolo
mimo e Flavio Bonacci, lungo lungo e dinocolato, bombetta e scarpe
sfondate, indimenticabili Vladimiro ed Estragone nel Godot di
Beckett, o “Il Pittore in Tre Minuti”, che faceva sbocciare come
per incanto sulla scena un quadro dipingendolo nel breve spazio di un
numero mentre gli artisti si esibivano, e Walter Valdi, faccia da
ragioniere, milanese del Vicolo delle Lavandaie sui Navigli, che
aveva stravolto l’esotica melodia della Bossa Nova per cantare, con
l’espressione imperturbabile di un Buster Keaton di periferia,
la Busa
Noeuva,
la voragine che si era aperta nella sua via… E poi i personaggi già
allora famosi, Umberto Bindi, con la sua aria da Chopin tormentato e
il bicchiere perennemente posato sul pianoforte, Jannacci, appena
laureato dottore, che sottoponevamo a lunghissimi assedi per
estorcergli le ricette che curassero le malattie che tormentavano la
nostra ipocondria, e la danza sulla tastiera delle dita di Intra
o di Sellani, e Bruno Munari, che dell’arte aveva fatto la sua
religione, e sceglieva quei locali per presentare i suoi libri
straordinari, fatti di cartone, di stelle e di sogni… E infine i
mostri sacri, come Charles Trenet, che compariva, panama, giacca
bianca e garofano rosso all’occhiello, facendo il suo ingresso
regale al Derby
club e
Bongiovanni, il gestore, spediva il figlio giovinetto a chiudersi in
camerino -dove del resto diceva la leggenda fosse stato partorito- .
“Non sci scià mai”, mi sussurrava con l’accento che non aveva
perduto della sua Romagna, dandomi di gomito e indicando
lo chansonnier sulle
cui preferenze sessuali era tutto un fiorire di ammiccamenti e di
sussurri…
Vita
randagia quella dell’attore: alberghetti scricchiolanti,
portafoglio che sbadiglia, cene a mezzanotte, sveglia tardi, valige
sempre pronte. E tanta allegria. Un mattino uscendo in banda dal
Teatro Olimpico a Vicenza avevamo seguito e scherzato con una
ragazza, un’operaia diceva il grembiule blu che la fasciava come
una regina mettendone in risalto le forme statuarie. “Come ti
chiami?”, le avevamo chiesto. “Rosetta”, aveva risposto
scomparendo, come il simbolo di una bellezza che avrei in seguito
tante volte in vita mia sfiorato.
A Vicenza ero venuto da solo,
anche per concedermi una pausa di respiro dal clima soffocante in cui
si andava lentamente dissanguando il mio amore con Anna. E ogni
giorno in scena pronunciavo l’eterna domanda della guerra –Il
tuo uomo Farnuco dov’è? E il bravo Ariomardo? Dov’è Sevace
principe, Lileo, gran sangue…–
il grido che in ogni epoca e latitudine risuona sulla bocca dei
sopravvissuti chini sulle vittime, illustri o sconosciute che siano.
Recitavo nel coro dei Persiani sotto
l’occhio attento di un maestro della regia, un greco, Rondiris, che
l’anno dopo, nel ‘67, sarebbe stato imprigionato e torturato dai
colonnelli che per sette anni avrebbero sfigurato la culla della
democrazia. Quella democrazia che con Eschilo ateniese figlio di
Euforione avrebbe saputo trovare le parole della pietà nei confronti
dei nemici sconfitti. Una cosa impensabile, oggi che di democrazia
tanto ci si riempie la bocca mentre nel ghigno degli psicopatici
della Casa Bianca, e dei loro reggicoda di ogni dove, i poveri corpi
smembrati dai loro aerei sono un niente, numeri, danni collaterali.
“Loro
picchiavano forte“,
raccontava l’araldo rievocando il disastro di Salamina, “troncavano
gli uomini in due: una mattanza, diresti, un volo di reti -strage di
pesce…“.
Poi finivano le prove e tornavamo ragazzi, uscendo dal teatro nel
sole della piazza, seguendo le fanciulle, facendo il verso al
birignao di Elena Zareschi, la regina Atossa, o raccontando
barzellette su Calindri, il re Dario, che mi
sorprendeva sempre
fosse senza foglie e senza spine, abituato com’ ero a vederlo alla
televisione nella réclame del Cynar, il noto aperitivo a base di
carciofo, e “contro il logorio della vita moderna”.
Di quella
banda scanzonata faceva parte anche Giulio Brogi, araldo in scena e
burlone in strada, interprete di lì a poco, insieme a uno
straordinario Lucio Dalla, di un film che avrebbe fatto
epoca, Sovversivi dei
fratelli Taviani, la storia di un fotografo e di un rivoluzionario
latinoamericano che si incontrano durante i funerali di Togliatti a
Roma.
E sovversivi ormai lo eravamo diventati veramente. La rivolta era iniziata, come di consueto per i giovani, nei nostri armadi: i vestiti sono infatti il segno più immediato e più visibile di una distinzione e di un’appartenenza. Dai primi timidi tentativi di liberarsi dalla schiavitù della cravatta per i maschi e dalla tirannia di golfino e camicetta per le femmine, eravamo arrivati alla fine a un vero e proprio carnevale: giacche gialle, giubbotti sgargianti, baschetti alla Guevara, pantaloni scampanati, i primi eskimo, o quei giacconi afgani ricamati come quello che indossava Paolo Setti quando lo conobbi al suo ritorno da un viaggio a Kabul, che non era la distesa di macerie che è oggi, ma la città favolosa dove Alessandro Magno si era innamorato della bella Rossana. E i capelli che si allungavano, le barbe che crescevano e, per il batticuore dei nostri desideri, le prime minigonne, inventate da Mary Quant, la regina di Carnaby street e grande amica dei Beatles, dei quali, tra l’altro, avevo preso a fischiettare una canzone, Michelle, che mi era più comprensibile se non altro per le parole francesi del ritornello e che mi sembrava la colonna sonora appropriata della mia sempre più tormentata vicenda con Anna. E, a ben pensare, l’abbigliamento aveva avuto una parte non secondaria nei primi fermenti all’università: stanchi di vedere il dito imperioso dei bidelli scacciare le nostre compagne in pantaloni, ci eravamo fatti paladini del loro sacrosanto diritto di vestirsi come diavolo volevano. Ma la libertà è una malattia contagiosa che non poteva naturalmente limitarsi al guardaroba, senza contare che essendo studenti estremamente coscienziosi e diligenti volevamo mettere in pratica quanto i nostri maestri ci insegnavano e che strideva talmente con una società basata sul denaro e sull’ineguaglianza che esso crea. E, uscita dai libri, la parola sfruttamento divenne la lente con cui guardare e giudicare quanto ci circondava. Ma, come dice l’adagio, le pulizie cominciano dalla cucina di casa propria, e di una bella ripassata anche le nostre università avevano gran bisogno: dalla liberalizzazione dei piani di studio, al diritto di riunirsi in assemblea per discutere i nostri problemi, alla necessità sempre più impellente di buttare definitivamente nella spazzatura quel vero e proprio schifo che ammorbava col suo fetore l’aria: i fascisti. E forse i fratelli Larussa, uno dei quali oggi è purtroppo parlamentare della nostra sventurata repubblica, e che andavano in giro allora con cappotto di pelle nera, spranga e cane lupo al guinzaglio, ricordano ancora il lavoro di ramazza con cui la nostra ansia di pulizia ci liberò definitivamente di loro e dei loro degni compari. E ormai ci avevamo preso gusto. Disinfestare era la parola d’ordine: la società dai padroni, e il mondo dalla guerra. E quindi i primi contatti con gli operai, il fiorire di innumerevoli riviste, il sorgere dei primi gruppi fuori dai partiti tradizionali, il diffondersi di un termine orribile per dare un nome al nostro impegno e alla nostra generosità: militanza. E noi stessi del Teatrino dei Tre, smessi i panni frivoli del cabaret, ci trasformammo in “militanti” iniziando a collaborare con Paolo Maltese, un siciliano di antica baronia, di quelli che fanno onore alla loro terra, nei suoi recital di denuncia della mafia, dei misfatti del regime franchista e, naturalmente, delle atrocità americane in Vietnam. E, a questo proposito, quasi ogni settimana, in via Vittor Pisani, erano botte da orbi con la polizia sotto il consolato americano dove andavamo a protestare per i democratici e quotidiani massacri perpetrati dagli yankees, e mentre, tornato a casa, mi spalmavo salutari unguenti sui lividi delle manganellate, giuravo a me stesso che mai e poi mai avrei imparato la lingua di quegli stramaledetti cow-boys. Ognuno di noi stava insomma acquistando individualmente i tratti che avrebbero formato l’identità collettiva di tutta una generazione.
Una generazione, quella del ‘68, che fece il suo debutto in anteprima sulla scena disastrata della Firenze dell’alluvione del novembre del ‘66. Una città da stringere il cuore: fango dovunque e fino ai primi piani delle case, un cielo livido, il Cristo di Cimabue pencolante e lordato sull’altare e, buttate qua e là dalla furia del fiume, le automobili, come giocattoli che una mano capricciosa avesse scompaginato… E dovunque una folla di giovani con stivaloni di gomma, incerate, guanti, venuti da ogni parte d’Italia per ripulire la città –si vede che quello della pulizia era proprio il nostro destino!- e liberarla dai detriti. Gli angeli del fango, come ci avrebbero immediatamente battezzato i giornali e attestato con la solita regolamentare pergamena rilasciata dal Comune di Firenze trent’anni dopo. Io ero di stanza nei sotterranei della Biblioteca Nazionale a tirar su i preziosi codici, incunaboli e manoscritti lì custoditi e debbo dire che mai come in quell’occasione doveva sfinirmi il peso della cultura. Nelle pause che ci concedevamo era tutto un fiorire di discussioni, una scoperta di idee e di ideali comuni, uno scambiarsi di indirizzi, di promesse di rivedersi. Michele Ranchetti, un allora giovane, e nonostante la situazione azzimato, professore di storia delle religioni, che andava in giro per fanghi e sotterranei con una sua graziosissima allieva, Alessandra, lo avrei rivisto qualche mese fa, scoprendolo mio illustre collega, autore di uno dei libri di poesia più intensi mai pubblicati, La mente musicale, e mi rivelava Michele in quell’occasione che la giovane da me ammirata e a me ignota era Alessandra Ginzborg, parente di quel Paul Ginzborg, organizzatore dei girotondi che sono un argine gioioso in difesa della democrazia contro chi la democrazia ogni giorno la rosicchia. Ma allora erano il freddo e la fatica che ci accomunavano. Quel novembre pareva non dovesse mai smettere di gocciolare. Ero fradicio di pioggia quando, tornato a Milano, vidi per l’ultima volta Anna scomparire dietro l’angolo di Corso Genova.
Ticchettava
ancora contro i vetri la pioggia quando, un pomeriggio, squilla il
telefono. “Buongiorno Giulio, avrei urgente bisogno di vederla…”.
Una voce compita, gentilissima, un lei rigoroso, mitigato solo dal
nome di battesimo che si permetteva data la differenza d’età. Non
so in quale guerra il Colonnello Valagussa, che mi appariva
straordinariamente vecchio, avesse guadagnato i gradi: certo avrebbe
meritato di essere promosso sul campo generale per la sua strenua
difesa degli interessi dei giovani attori di cui era agente. Se
Valagussa vuole vedermi, deve essere una cosa importante, almanacco
fra me e me mentre corro al suo ufficio in via Santa Marta. Un
bugigattolo ingombro di manifesti, di foto, di vecchi copioni, e,
dietro la scrivania, un uomo imponente, dai baffoni soldateschi e
dagli occhi buoni. “ Dunque”, tergiversa Valagussa, “si
tratta di un lavoro particolare… Ma ci sono molti soldi, le vengono
assicurati regolari passaggi televisivi. E poi”, mi fa guardandomi
come un alfiere che valuti il suo cavallo “mi pare che lei abbia il
fisico adatto”.
Fisico, soldi, televisione… già mi vedevo nei
panni di un giovane mattatore, un futuro Gasmann, un emulo di Ermete
Zacconi, un sodale di Laurence Olivier… “Mi dica, Colonnello!”.
L’impazienza della mia voce non lo scuote né punto né poco, e
attacca tutta una tiritera: che viviamo in tempi moderni, che bisogna
capire i nuovi linguaggi, che avrei avuto un bel costume, che anche
la pubblicità è un’arte e che insomma, conclude trionfalmente “Le
propongo il ruolo di Superdash!” “COSA?!?!”. Ma sì, avrei
dovuto vestirmi da Nembo Kid, con una grande esse sul petto, indicare
il fustino, dire le frasi d’uso e “Diventerà una
celebrità,vedrà…”. Tutto quel rincorrersi di a accentate non
riesce a placare il groviglio dei miei pensieri. E mentre dentro la
mia testa una vocina mi diceva che in fondo anche Calindri da
carciofo si era trasformato in re, e persiano per giunta, fuori,
quella stessa testa si scuoteva in dinieghi che diventavano sempre
più decisi man mano che il buon Colonnello magnificava la mia futura
sorte di paladino del bucato –una vera e propria ossessione questa
della pulizia-. Alla fine il vecchio soldato dovette arrendersi di
fronte alla mia ostinazione, ma, poiché mi voleva bene e forse aveva
avuto sentore dei miei drammi sentimentali, non potendo alleviare la
desolazione del mio cuore, pensò di curare la fame del mio
portafoglio proponendomi la parte di Colin alla Piccola Commenda, che
accettai immediatamente con un sospiro di sollievo e un reverente e
grato pensiero al dio degli attori che mi aveva scampato da cotanto
periglio.
E così erano iniziate le prove, e il rito che le
precedeva: la partita a flipper, quella misteriosa canzone, Eleanor
Rigby,
che mi pareva dovesse cucire insieme tutto quanto avevo fino ad
allora vissuto, il caffè, l’ultima sigaretta e via in teatro… La
sera della prima, come è buona tradizione, andammo a mangiare tutti
insieme, con Dolores Pizzoli, l’adorante marito e una schiera di
amici vari, al Dollaro,
un locale in viale Montenero che per seicento lire, l’equivalente
allora della mitica e blasfema banconota verde, su cui c’è scritto
In
Dio Crediamo,
dava da mangiare un’ottima bistecca alta due dita con contorno di
patatine fritte condite con una vera e propria novità: il
ketchup. Mi stavo ancora pulendo la giacca, che per l’occasione
avevo scovato negli armadi della mia adolescenza, dalle stupide
macchie di quel micidiale intruglio, quando, alle quattro del
mattino, insieme ai miei tre amici e colleghi, alla Stazione
Centrale, aspettavamo l’apertura del chiosco dei giornali per
leggere le recensioni allo spettacolo e le lodi della nostra bravura.
Qualche benevolo trafiletto, in effetti, ce l’avevano dedicato, ma
la notizia che campeggiava in prima pagina era il suicidio di Luigi
Tenco al Festival di Sanremo.
E di morti i giornali erano pieni.
La goccia che fece traboccare il mio vaso già abbondantemente pieno,
fu quell’incredibile foto pubblicata dall’Unità e
dal Giorno,
che allora era un giornale democratico: tre ragazzoni in uniforme,
sbracati e ridenti, che reggevano per i capelli la testa mozzata di
tre patrioti vietnamiti. E così, approfittando della sospensione
pasquale dello spettacolo alla Piccola Commenda, presi un treno per
Firenze. Tornavo nella città che avevo contribuito a ripulire deciso
a trasformarmi da angelo del fango in angelo vendicatore. Una
vendetta da poco, in fondo, commisurata all’enormità dei crimini,
ma che era andata, con mia somma soddisfazione, a spiaccicarsi sotto
forma di uovo sulla faccia tronfia del vicepresidente americano
Humphrey in visita alla città mentre era attorniato da una folla
plaudente di suoi compatrioti. Risultato: tante botte da parte
di giovanottoni americani identici a quelli della foto
dell’Unità,qualche
giorno di prigione, articoli sui giornali scandalizzati per il mio
gesto incivile, interpellanze in parlamento, un processo in cui
l’allora giovanissimo sostituto procuratore Vigna mi aveva sì
condannato ma concedendomi le attenuanti per i particolari motivi di
valore morale che avevano ispirato il mio favoloso e precisissimo
lancio. Avevo ricevuto anche, insieme a tante lettere anonime di
minaccia, un telegramma di congratulazioni da parte di Michele e di
Alessandra.
Tornato a Milano, avevo ripreso la solita trafila:
flipper, Eleanor
Rigby,
caffè, sigaretta, teatro… Quando entravo Dolores Pizzoli scuoteva
la testa in segno di disapprovazione, e persino il marito cessava per
un istante di adorarla, bofonchiando qualcosa che non capivo, ma dal
tono certo non benevola nei miei confronti. Recitavo… Ma ogni sera
in scena i miei baci diventavano sempre meno appassionati, così
come, di giorno in giorno, si andava affievolendo il mio amore per il
teatro. Avevo 23 anni. Sentivo altre urgenze.
Avevo ripreso a
scrivere. E mentre andavo incontro alle gioie e ai dolori che mi
erano destinati, non sapevo che la mia poesia e la mia vita
avrebbero, per così dire, seguito la cadenza di due strofe di una
canzone le cui parole mi erano allora –e fino a pochi giorni fa
quando Deborah, mia moglie, che è americana, me le ha finalmente
tradotte- mi erano, dicevo, assolutamente incomprensibili: Da
dove viene tutta quella gente sola? (All the lonely people where do
they all come from?)
Giulio Stocchi
Due poesie
Da dove viene tutta quella gente sola? (All the lonely people where do they all come from?)
Ma
verranno i giorni del freddo
i senza
sorriso
assurdi
medievali
precipitando
con tintinnìo di
chiodi
contro le dighe incessanti
della notte
So che un
tramonto
sarà eguale
a due cani che si rincorrono
conosco
la piccola morte
di chi mangia solo
e quanta ombra
mi
scava
nel futuro del volto
Così
una porta
lungamente
va
cigolando
in una casa
disabitata
E forse perché in te
tutto
amai
me ne andrò
senza libro
e senza stella
ma
come
attraverso una pianura
chi trascina
la propria ruota
genitale
Saremo allora
talmente lontani
che la sirena delle
fabbriche
ci sorprenderà
sulla soglia
di un ristorante
meridiano
con un vago
sapore di lacrime
Gli orologi delle
cucine
dove l’uomo solo
distrattamente mangia
fra un muro
di piastrelle
e una notizia
fissando gli occhi
lungo le
infinite parallele
di un rancore senza ricordi
e poi
scuotendo
la testa
mormorando
come ubriaco
le stesse parole
per
tenersi
compagnia
o sentirsi
disperatamente
vivo
e
quindi
alzandosi
fra i piatti sporchi
testimonianza
o
maceria
di una
ripetuta
quotidiana
sconfitta
s’avvicina
alla
finestra
accende
una sigaretta
di cui
stringendosi nelle
spalle
non tiene più il conto
guarda
un angolo
di
cortile
fuori dai vetri
scaccia
il
fastidio
dell’infanzia
che all’improvviso
lo prende alla
gola
nell’eco di un girotondo
dabbasso
e nel silenzio
si
abbandona
a quel
tic tac
tic tac
tic tac
su cui
gli
fuggono
i pensieri
mentre
fra le dita
la
brace
consumandosi
lentamente
si fa cenere
Si confonde
ormai
il passo con la scarpa
e dovunque il minerale
impone
la sua dura
morta legge
E il tempo cade muto
chiudendo ad
una ad una
le finestre
finché solo la pioggia
va
disperdendo
nell’ora lunga dei pomeriggi
i messaggi
delle
ultime bottiglie
Fummo
ci ritrovammo
camminammo
per poi
allontanarci
senza parole
estranei e solitari
come vecchi
zoppi
No
non voglio ricordare
quel che mi
riserva
l’autunno
il verdetto degli specchi
o la stanca
cicatrice
dei tramonti
Non voglio udire
la goccia lenta
dei
lavandini
cadere
incessante
monotona
spergiura
Non
voglio frugare
dentro gli armadi
per riconoscere
il giro
delle stagioni
e il passato
e il presente
Ma tu sarai
lontana
perduta
lungo i crocevia del pianto
senza luce
né
sponda
Allora
le mani della notte
si apriranno
perché
una pietra
e un’altra
e un’altra
a lungo mi rotolino
e
infinitamente
sulla sinistra del cuore
E poi
le strade della
notte
Margherita che scendi le scale
nel tuo delirio di sogni
e
bicchieri
stringendoti morti bambini
fra i denti
e
parlando
parlando
parlando
verso gli abissi
di una
geografia
da cui fuggirono per sempre
le camere
odorose
dell’infanzia contadina
Margherita
che ti chiami
Daisy
per gioco appreso
sulla lunga attesa dei fumetti
e
riscattando in un sorriso talvolta
le mani che ti brancicano
le
mani che ti prendono
le mani che ricercano
solo ciò che per
tante mezzanotti
hai per sempre perduto
portando in
borsetta
pistole giocattolo
per difenderti
dall’ombra
Margherita di suore
e aghi che ti trafiggono
in
fantasmagorie di ospedali
ridente di barzellette
e tutta la
solitudine
che ti fa nere le unghie
oscena
nella tua
semplice dignità
ferma agli angoli
aspettando un tram che non
arriva
Margherita detta Daisy
dai tuoi sogni di
carta
indossatrice dicevi
e ancora parlando terre e vigne
del
Piemonte che ti porti sul labbro
sperduta e pallida
lungo le
panchine
una sera
con una cagna e una pistola
giocattolo
della violenza
che da ventisette anni
ti ferisce nel
profondo
della tua orfana statura
e con pietre
Margherita
con
fiori di carta
con denti che ridono
con borsette e con
gonne
con tutta la vita che ti stringe alla gola
per giungere
ad un angolo
dove uomini forse ti attendono
nello scongiuro di
fotografie
promettendo di non bere più
e sempre
trascinandoti
da un bar all’altro
che nonostante sai amare
Margherita
scoppiando in risate improvvise
di
barzellette
nervosa tu dici
e pazza perché nata sotto un
cuscino
nella tua incosciente e lunga notte
dopo aver guardato
dentro lo specchio
di un tempo che ti dice no
con rughe attorno
agli occhi
eppure giovane
giovane di passi e
sorrisi
stringendoti pellicce di pelo finto
giunta fin nel
cuore degli inverni
per rimpiangere calori mai
visti
Margherita
detta Daisy
con civetteria contadina
ancora
di strade provinciali
da cui passarono corriere
quel
giorno che decidesti per sempre
di lasciare le vigne e il
paese
per ritrovarti lungo angoli di cemento
panchine
panni
stesi
case a buon mercato
mani brancicanti in sospiri che
fingono
l’amore
in precipitante fuga
verso bicchieri
e
vuoi vivere
vivere Margherita
detta Daisy
col tuo corpo
lungo e magro
aggrappandoti al primo che incontri
puntando
pistole occhi di notte
contro ombre inconsapevoli
della tua
discesa infernale
dei tuoi gradini
che portano a stanze di
solitudini
coi manifesti dei cantanti alla moda
e i dischi
delle ultime canzonette
per dimenticare nel giro
di tre
minuti
l’ombra di chi ti promise
di chi ti parlò
di chi
ti prese
di chi ti abbandonò
per sempre in questo imbuto
di
solo cemento
Margherita detta Daisy
fissando le stelle e
piangendo
con vestiti lunghi
e gonne civetteria
di carta
straccia
inseguendo sulle caselle di parole
incrociate
anagrammi
di felicità sconosciute
di sicurezze spese
di sentimenti
malricambiati
e la tua piaga Margherita
di bambini
che ti
dici Daisy in un sogno
che ti va largo
come il vestito che
porti
che lavori dalle suore
che hai il terrore di ospedali
e
di lunghe punture
proprio dentro il cuore
Margherita
sognante
solitaria in fondo a stanze
che ricerchi solo l’amore
quello
che ti dicevano da bambina
nelle favole
per poi svegliarti
in
quest’incubo di case e panchine
in quest’ora lunga tutte le
sere
senza sapere che cosa fare
e senza il figlio che
sognasti
che ti portarono via morte e infermiere
che dici di
avere allattato
per poi contemplare solo fotografie
su comodini
crudeli
Margherita
detta Daisy
per telefonarmi talvolta
per
dire
il mio maschio poeta
16
altro inganno che conosci
da
occhi che ti fissano
nella girandola furiosa
di parole che non
vogliono stare al loro posto
nascosta e annegata dentro sogni di
cartapesta
per ricordarti semplicemente
della tua maternità
trafitta
e del nido segreto
da cui i sogni prendono il
volo
come anatre impazzite
Margherita
e l’ora lunga di uno
specchio
in cui ogni sera
tornando da strade e da
risa
solitaria
scontrosamente
ti contempli
Padre
McKenzie che scrive le parole di un sermone che nessuno
ascolterà
(Father
McKenzie writing the words of a sermon that no one will hear)
C’è
sempre
un muro da varcare
un passaporto
un controllo
il
terrore improvviso
di dimenticare
perché ti trovi proprio
in
quel posto e non
altrove
la fila lunga
delle
valigie
qualcosa da
dimostrare
il respiro degli altri
che
avverti
come un’oscura
minaccia
il tonfo di un timbro
sul
foglio
che ti concede
di esistere
un neon
una porta
un
orologio
Inequo
dice con voce lenta
il provvedimento è
inequo e noi
non lo possiamo accettare in otto
attorno al
tavolo in rappresentanza di più
di tremilaseicento operai un
cartellone
pubblicitario che vedo dalla finestra afferma
che la
vita è meravigliosa e inequo
torna a ripetere e più della
parola
o della situazione la storpiatura della
parola pone un
problema denuncia che
con la parola molti si storpiano la vita
la
quale per altri è meravigliosa perché
questi appunto vivono così
e che lo
sfruttamento non è una parola la storpiatura
della
parola dunque lo testimonia
e rivela altresì che la parola
giusta
deve essere ancora detta
perché tutto ciò
com’è
giusto
finalmente
scompaia
Come non ha
importanza
smettere
di fumare
ad esempio è già
un ottimo
sistema o
fare
ginnastica anche
può essere
l’inizio
l’essenziale
è
trovare una leva
un appiglio
che ti faccia
esistere
fuori
di te
qualcosa con cui
confrontarsi dunque
una
resistenza
anche minima
un esercizio modesto
e ogni giorno
soprattutto
18
imporsi di uscire
di casa
dedicare
almeno
un’ora
al passeggio
per le strade e le
piazze
dove cammina
una possibile
fraternità
E da
sempre
considerati
fiato
e sudore
considerati
quelli
che
ci si ingrassa
al tempo
dell’abbondanza
e che in tempi
di
crisi
si scaccia
noi
uomini
tuttavia
e non
numeri
da
allineare
in colonna
o bestie
trascinate
dove
la
vita
l’appendono
per affittarla
ad ore
della
ricchezza
comune
fondamento
pur
essendone
noi
esclusi
qui
giunti
dagli anni
e senza
nulla
dimenticare
di quanto
negli anni
ci pesa
ben
conoscendo
del lavoro
il costo
per averne
nel sangue
e
nella carne
sempre
pagato
il
prezzo
polvere
roca
della
rassegnazione
trasformata
in
canto
oggi
e con i sogni
nostri
tutti
interi
fino a
quando
chiediamo
all’arroganza
dovremo
chinare
la
fronte?
è giusto
chiediamo
sian pochi
a decidere
e
molti
a subire?
e al banchetto
chiediamo
i posti
son
stati davvero
in eterno
fissati?
è forse il
destino
chiediamo
che sulla terra
a passare
di sbieco
ci
danna?
Ciò di cui si parla e che spesso
si dimentica è che
infine
ognuno ha il diritto di abitare
il mondo nel tempo che
gli è dato
sapendo che serberà il ricordo
di un fiore forse
di un geranio
o di una nuvola quel giorno
come un sospiro sopra
il lago
quando si strinsero le mani
in un pegno di speranza
e
che il suo compito appunto
sulla terra in nient’altro
consiste
se non nel proteggere un fiore
una nuvola un sospiro
E
non più macerie
se dentro di noi scaviamo
per uscire nuovi
finalmente
alla vita
la parte dell’ombra sconfitta
da mani
scongiuri che si stringono
come fosse la prima volta toccando
ogni
cosa
ed inventando nomi con lo stupore
di un’infanzia che si
apre al mondo
al vento spargendo i semi del sogno
per gettare
le fondamenta di costruzioni
future
che smentiscano la gabbia
che ci costringe
in calcoli lunghi
in polvere
in
orologi
sbriciolata sabbia
del tempo che c’è dato
dove
ognuno guarda
obliquamente all’altro
e distruzione è la
legge
frantume la ragione
e odio il risultato
Ecco il
compito
che ci attende
Il
mai
fatto
Ciò che
renderà
vero
quel che viviamo
vivo
ciò che
speriamo
L’acqua scorre
e il sasso resta
Con la sua
bambola
lungo il fiume
la bimba cammina
sussurra una
canzone
…bella da niente
che sarai regina
sarai luna
sarai
stella
e il vento ti porterà
via
cucendoti un vestito
di
rugiada e di viole
t’affiderò la mia ferita
perché sbocci
come un fiore
con te sarò sovrana
dei regni dell’aurora
aquila
danzante
alla periferia del sole
erba sottile
accarezzata
dall’amore
farfalla taciturna
che s’incendia di
colori
bella da niente
che sarai regina
perché il mondo
m’accolga
in un riso di stupore…
Con la sua bambola
lungo
il fiume
la bimba cammina
sussurra una canzone
E il sasso
resta
ma l’acqua scorre
Giulio Stocchi
Link a video, testi, poesie e libri pdf da scaricare gratuitamente
Giulio Stocchi, il campagno poeta
il sito dedicato al suo lavoro letterario
Il ricordo di Gaetano Liguori su La Repubblica:
La sua poesia “IL POSTO DI LAVORO NON SI TOCCA recitata in piazza Duomo a Milano davanti a 100 mila manifestanti in solidarietà con i lavoratori dell'Innocente ( 4 Dicembre 1975)
http://www.iskrae.eu/ci-lasciato-un-amico-un-viaggio-piu-lungo-giulio-stocchi/
Il ricordo di Michele Licheri:
http://www.labottegadelbarbieri.org/e-morto-giulio-stocchi-compagno-poeta-e/
Una sua poesia in morte di Sharon:
https://moltinpoesia.wordpress.com/2014/01/13/giulio-stocchiin-morte-di-ariel-sharon/#more-6339
Alcune sue poesie:
https://toscano27.wordpress.com/category/poesie-di-giulio-stocchi/
“Ogni volta che torna Aprile”, testo in ricordo di Giannino Zibecchi giovane studente ucciso dalla polizia a Milano (Aprile 1975); testo tratto dal libro Compagno poeta pag. 3-7):
Un piccolo libro: Fare Poesia:
https://www.yumpu.com/it/document/read/16282255/giulio-stocchi-farepoesia
Altre poesie:
http://poieinkaiprattein.org/poetry/giulio-stocchi/
Poesia e danza (un video con Sveva Bertini):
https://www.youtube.com/watch?v=A9s2vnoJ9jc
Dal testo della Cantata Rossa per Tel Zaatar:
http://poieinkaiprattein.org/poetry/giulio-stocchi/la-cantata-rossa/
La Cantata Rossa per Tel Zaatar, poesia di Giulio Stocchi, musiche di Gaetano Liguori, voce di Giulio Stocchi e Demetrio Stratos:
https://www.youtube.com/watch?v=Uva5UWz5dq4
https://www.youtube.com/watch?v=5_Up8Ol0j0M
https://www.youtube.com/watch?v=jbpxGwfyTBY
https://www.youtube.com/watch?v=3ek7vIQZA4A
https://www.youtube.com/watch?v=gsqYh0gsXVQ
https://www.youtube.com/watch?v=NjGbmlJ-D2I
https://www.youtube.com/watch?v=CmEcLyxxviE
https://www.youtube.com/watch?v=GLC5DS_Oin0
https://www.youtube.com/watch?v=nIcqd8HbuE4
Nota di presentazione di Cantata Rossa per Tel Zaatar:
https://www.accordo.it/article/viewPub/473
Un articolo di presentazione e critica musicale di Marcello Lorrai su Cantata Rossa per Tal Zaatar (Agosto 2016):
https://www.radiopopolare.it/tall-el-zaatar-gaetano-liguori-agosto-nero-cantata-rossa/
L'altezza del Gioco, poesie (2003):
Per scaricare Fare Poesia in pdf:
http://www.farepoesia.it/Quadri%20di%20un'esposizi.pdf
Per scaricare Quadri di un'esposzione in pdf (2009):
http://www.backupoli.altervista.org/IMG/GIULIO_STOCCHI_Quadri_di_un_esposizione.pdf
In tempo di guerra. Un libro in pdf:
http://www.giuliostocchi.it/in%20tempo%20di%20guerra.pdf
La tenzone poetica Giulio Stocchi- Giorgio Luzzi (Festival Storia -Torino 2016):
http://www.festivalstoria.it/festival/index.php?option=com_content&view=article&id=304&Itemid=304
La poesia come viaggio di Giulio Stocchi (Pdf da scaricare):
http://www.dadarivista.com/Singoli-articoli/2011-viaggio/pp10.pdf
Una poesia tradotta a cura di Giulio Stocchi e Deborah Strozier. Maledetti gli assassini di Gaza:
https://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=23541
Mare
nostrum. poesia di Giulio Stocchi, disegni di Veronica Menghi.
Dedicato ai migranti di tutto il mondo (Un libro illustrato online, a
cura di Percorsi, Cultura e promozione sociale):
Stati Uniti del dollaro, poesia di Giulio Stocchi:
http://win.agliincrocideiventi.it/archivio/poesia/Stato%20Uniti%20del%20dollaro.htm
Pierpaolo Pasolini, letto e interpretato da Giulio Stocchi - Una nera rabbia di poesia, "ERETICO & CORSARO" (un monologo):
https://videotecapasolini.blogspot.com/2013/12/pierpaolo-pasolini-letto-e-interpretato.html
“Eleanor Rigby”, un testo di Giulio che racconta i suoi primi amori, l'accademia, le amicizie, il teatro, le notti degli artisti, le prime lotte e il lancio dell'uovo contro il vicepresidente degli USA, Humphrey, a Firenze:
http://www.poliscritture.it/2019/04/11/eleanor-rigby/#more-874